incesto
Le vacanze di René - 12
di July64
12.05.2017 |
21.885 |
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"Comprendevo che passare repentinamente da una condizione di riposo ad un rapporto sessuale, senza attraversare la fase dei preliminari, era un fenomeno..."
Le vacanze di René - parte dodicesimaEro aggrappato alla mano di mamma come alla vita. In effetti ero proprio tornato alla vita. E vi ero ritornato in un modo straordinario: alla felicità di averli ritrovati tutti vivi si aggiungeva lo sconvolgimento di aver fatto, per la seconda volta, l’amore con mia madre. Lei mi precedeva di un passo per farmi strada attraverso la folta vegetazione tropicale: io la guardavo estasiato, mentre il cuore mi batteva forte nel petto.
Ammiravo la sua chioma castana, libera nell’aria profumata di mille aromi tropicali, i miei occhi si perdevano nei suoi, verdi, meravigliosi, quando lei girava la testa verso di me e mi sorrideva. Sì, ero innamorato di lei come un adolescente si innamora della propria compagna di banco. Ma mentre quest’ultima è, in genere, una sconosciuta, mamma è la prima persona che avevo visto nella mia vita, anzi che avevo conosciuto ancor prima di nascere!
Ci addentravamo nel folto del bosco di palmizi. Cespugli profumati, dai quali spuntavano fiori coloratissimi, facevano da contorno al nostro cammino.
Marciammo per almeno dieci minuti, scostando il fogliame che ostruiva il passaggio. Era evidente che il transito precedente dei miei parenti aveva tracciato una specie di sentiero, che seguivamo sicuri, consapevoli di andare nella giusta direzione. Il sole, ormai alto e caldissimo, che aveva finalmente sostituito la tempesta, non riusciva ad attraversare la cortina di vegetazione tropicale, nella quale trovavano dimora uccelli dal piumaggio più strano, che si alzavano in volo disturbati dal nostro passaggio.
Non ci volle molto per arrivare al luogo in cui il nostro gruppo aveva trovato riparo: cominciammo ad ascoltare il suono di alcune voci che sovrastavano il canto incessante degli uccelli. Ad un tratto l’ombra si interruppe ed apparve una radura illuminata dalla luce del sole. Mia madre accelerò il passo, mentre io le ero sempre attaccato. Fummo accolti da tutti con un grido di gioia.
Tutti i presenti accorsero accanto a noi non appena spuntammo attraverso il fogliame e ci circondarono.
“René, sei vivo!” mi dicevano la mie sorelle, poi le zie, Annette, Edith. Erano tutti entusiasti. Li abbracciai tutti quanti, ero come stranito, confuso dagli avvenimenti che si erano succeduti in sequenza frenetica: il mio naufragio, la lotta contro le onde, il terrore di aver perduto i miei parenti, la gioia di averli improvvisamente e miracolosamente ritrovati, l’aver fatto l’amore con mia madre, tutto contribuiva a farmi sentire come ubriaco.
“Dai, racconta, come è andata?” si affannavano a chiedere le mie sorelle. “Eravamo terrorizzate dalla tempesta, poi papà ci ha detto che eri stato sbalzato fuori dalla barca” mi diceva Virginie. “Non potevo accettare di perderti, fratellino mio”, ripeté Vir, abbracciandomi forte. Noi ti vogliamo bene!
Anche i nonni si fecero vicini. Notai che la nonna aveva uno zigomo gonfio e diversi ematomi alle braccia ed alle gambe, segno che era stata strapazzata dalla furia della tempesta e le chiesi come si sentisse: “Ora molto meglio, figliolo, sapere che tu sei vivo e stai bene è la migliore di tutte le cure per me” mi rispose nonna con gli occhi gonfi di lacrime. Poi tentò qualche passo, facendo una smorfia di dolore. Fui io allora ad avvicinarmi a lei, dicendole “non muoverti nonna, vengo io a prendere il premio…”, le cinsi il collo con le braccia e la baciai sulle guance.
Stesso trattamento riservai al nonno e, con maggiore intensità, ovviamente, alle zie, a Edith, ad Annette e a mia sorella Jacqueline. Mi rifugiai nella sua morbidezza come un uccellino in un caldo nido di piume. Jac era morbida e burrosa, il suo seno, schiacciandosi contro il mio petto nell’abbraccio, mi diede come una scossa elettrica.
Mi allontanai leggermente da mia sorella, consapevole delle reazioni, molto visibili, che il contatto con lei mi stava provocando. In realtà mi sentivo un erotomane: come potevo pensare a mia sorella in quei termini e appena dopo aver fatto l’amore con mia madre? Nemmeno la mia giovante età poteva giustificare una carica sessuale inesauribile come quella che sprigionava il mio corpo.
Dopo i primi momenti di gioia e di euforia per esserci ritrovati, cominciammo a realizzare di essere dei naufraghi su un’isola apparentemente deserta, almeno per ora. Certo, bisognava considerare che l’avventura avrebbe potuto avere anche un epilogo molto più drammatico. In effetti, eravamo sani e salvi, sulla terraferma, malconci, ma in buona salute.
Attendemmo per un’ora circa il ritorno di mio padre e di zio Marcel ed anche per loro la sorpresa e la gioia furono irrefrenabili: ci abbracciammo, mio padre era alle lacrime e zio Marcel non stava nella pelle, mi solleticava, mi buttava per terra e faceva finta di darmi tanti pugni in faccia. Era il suo modo di manifestare la propria gioia.
Cessate le effusioni, cominciammo a riorganizzarci. Mio padre e zio Marcel ci riferirono di aver girato per gran parte del territorio dell’isola, ma di non aver incontrato anima viva, né impronte sulla sabbia, tranne quelle che mi appartenevano e che loro avevano dapprima attribuito ad indigeni. In compenso, avevano scoperto che l’isola era molto grande, certamente di origine vulcanica, e ricchissima di vegetazione.
Quindi, dal punto di vista dell’alimentazione, forse non avremmo trovato grosse difficoltà. Avevano notato diversi ruscelli che scendevano dalla collina posta al centro dell’isola e probabilmente ricca di sorgenti. Non dovevamo far altro che verificare se l’acqua che ne discendeva fosse stata potabile o meno.
Si era fatto pomeriggio e nonostante l’aria fosse piacevolmente calda, suggerii di procurarci un riparo per la notte. Con mio padre decidemmo di ritornare alla barca per prendere gli oggetti di prima necessità, tutti i cibi che fossimo riusciti a recuperare, coperte e tutto ciò che potevamo riutilizzare: eravamo esattamente dei Robinson Crusoe. Dovevamo ora iniziare a lottare per la sopravvivenza, nel 21° secolo e con tutta la fenomenale tecnologia del 2000 a nostra disposizione!
A papà e a me si aggregarono zio Marcel, le mie sorelle, Edith e Annette. Ripercorremmo a ritroso la stessa strada che avevo percorso poco tempo prima con mamma e giungemmo alla spiaggia, solitaria e tranquilla. Il mare era quasi immobile, trasparente, chiaro come in un depliant di una agenzia di viaggi. La barca, arenata nella laguna, assomigliava sempre più ad un cetaceo venuto a terminare la propria esistenza su quella spiaggia meravigliosa e desolata.
Attraversammo il tratto di mare non più profondo di mezzo metro che ci separava dall’imbarcazione ed io precedetti mio padre e zio Marcel, arrampicandomi sulla murata inclinata. Strisciai sul ponte e raggiunsi la cabina di pilotaggio. Era tutto spento. L’urto contro gli scogli aveva distrutto, otre che i motori, anche le batterie che avrebbero potuto dare alla radio l’energia necessaria per metterci in contatto con qualcuno e chiedere aiuto. Scivolai verso l’apertura che conduceva sotto coperta e, seguito da mio padre e da zio Marcel, mi calai giù per la scala che era divenuta orizzontale, a causa della strana posizione che aveva assunto la barca arenata.
Aprimmo le porte delle cabine e cominciammo a raggruppare nel corridoio tutte le coperte ed i vestiti che trovammo. Ci munimmo di buste di plastica e cominciammo ad infilarvi dentro tutto quello che poteva essere trasportato. Ammonticchiammo i pacchi in un angolo e zio Marcel iniziò a passarli alle ragazze, che erano rimaste fuori, poiché era parecchio scomodo salire sulla barca.
Era tutto bagnato, abiti, suppellettili; mi tuffai nella mia cabina il cui pavimento era sommerso da almeno cinquanta centimetri d’acqua alla ricerca del mio telefono cellulare, che trovai debitamente allagato ed ovviamente spento, con i circuiti evidentemente distrutti dalla permanenza nell’acqua salmastra.
Dopo circa un’ora di lavoro avevamo ammucchiato una decina di sacchi di plastica zeppi di indumenti, di medicinali e di cibarie, cominciando da quelle contenute nei frigoriferi, che avremmo dovuto consumare per prime, essendo più deperibili, dato il caldo tropicale. Decidemmo di prendere innanzitutto gli indumenti bagnati per farli asciugare al sole, di non caricarci di tutto quello che avremmo dovuto asportare dalla barca, ma di prendere in momenti successivi le cose che non fossero assolutamente necessarie.
Scendemmo dalla barca ed ognuno di noi, con almeno due sacchi in mano, riprese il cammino verso la radura, dove gli altri ci aspettavano.
Quindi ci riunimmo e cominciammo seriamente a discutere della nostra situazione. Eravamo seduti in circolo, proprio come gli amici che avevamo lasciato soltanto poche ore prima.
Esordì mio padre: “Miei cari, è agli occhi di tutti che la situazione, nonostante siamo tutti salvi e, tutto sommato, in buona salute, non è delle migliori. Siamo qui, in un’isola tropicale meravigliosa, ma sconosciuta, non sappiamo se abitata – anche se ritengo che a quest’ora, se ci fossero stati degli indigeni, ci avrebbero certamente trovati – e soprattutto non sappiamo se abitata da animali pericolosi. Non che sappia dell’esistenza di belve in Polinesia, ma i varani, quella specie di iguana molto feroci, potrebbero vivere qui. Dunque, dobbiamo trovare un riparo per la notte e comunque fare dei turni di guardia, anche se siamo stremati.”
Non c’era nulla da replicare a quel discorso, assolutamente ineccepibile, fatto da una persona abituata ad organizzare la propria vita e quella di altri, anzi ad avere a cuore la sicurezza di chi lavorava con lui, a maggior ragione quella dei propri cari. Rinunciammo a dividerci in gruppi per esplorare l’isola, perché non avevamo alcuna certezza che non vi fossero pericoli per noi. Quindi decidemmo di andare in avanscoperta noi uomini, lasciando nella radura il gruppo, composto dalle donne di casa e dal nonno, che, nonostante la sua buona forma fisica, non era il caso di coinvolgere in una simile avventura.
Non avevamo bussola, quindi potevamo contare solo sulla posizione del sole. Erano le sei del pomeriggio, quindi avevamo ancora circa tre ore di luce, tenuto conto che ai tropici non esiste il crepuscolo e che la notte cala immediatamente dopo il tramonto. Cominciammo ad incamminarci. L’isola non era molto grande, ma nemmeno uno scoglio. Continuavamo a domandarci come mai non fosse abitata. Anche tenuto conto della scarsissima densità di popolazione polinesiana era da stolti non abitare un paradiso come quello.
Il bosco dove avevamo lasciato i nostri cari aveva ceduto il passo ad una vegetazione più bassa, composta di mangrovie, cicas spinose ed altri palmizi a foglie larghe e carnose. Il profumo della vegetazione era inebriante, l’aria frizzante come la Perrier, la famosa acqua minerale francese. La Francia, com’era lontana! Eppure non ne provavo affatto nostalgia. Il pericolo, l’avventura, l’evolversi della mia vita mi avevano catapultato in una dimensione talmente diversa e talmente piacevole che non avvertivo la mancanza di nulla, nemmeno della mia terra.
Fuori della macchia si notava, non molto lontano, un’altura senza vegetazione. Era a forma di cono, molto ripida e solcata da rivoli che da lontano apparivano come ruscelli. “Speriamo che sia acqua potabile” dissi rivolto a mio padre, “ma come faremo a verificarlo?” chiesi con aria angosciata.
“Mi offrirò io volontario!” disse senza esitazioni zio Marcel.
Lo guardammo incerti, ma in realtà la soluzione da lui proposta era l’unica percorribile.
Ci infilammo in un folto groviglio di vegetazione, in direzione della collina, ai piedi della quale avevamo intenzione di trovare riparo.
Mio padre, armato di un lungo coltello, recuperato in barca, recideva quei rami che ci impedivano il passaggio, ma soltanto quelli; non mi meravigliai che persino in una situazione drammatica come la nostra, mio padre non avesse dimenticato il rispetto per la natura che connotava la sua personalità e che aveva trasmesso a noi figli.
Camminammo per venti minuti ancora, talvolta sotto altissime palme, altre volte in terreno scoperto, altre volte ancora facendoci largo nel groviglio del fogliame e, finalmente, giungemmo ai piedi della collina.
Un laghetto d’acqua celeste si apriva alla base dell’altura, alimentato da una cascatella che scendeva dalla sommità. Zio Marcel costeggiò il laghetto, si avvicinò alla cascata e con le mani a coppa raccolse l’acqua e la portò alla bocca.
Rimanemmo tutti con il fiato sospeso…
“E’ dolce, Julien!” disse zio Marcel, “però aspettiamo ancora qualche minuto, se mi vedrete contorcermi tra gli spasmi addominali, avrete la certezza che non è potabile.”
“Smettila Marcel!” sbottò mio padre. “Ma ti sembra sia il caso di scherzare su queste cose? Ci siamo salvati dall’uragano per venire a morire avvelenati su quest’isola sperduta? Ma per favore!”
Raggiunsi zio Marcel, più per solidarietà che per essergli d’aiuto. In effetti, se fosse stata avvelenata, i medicinali presi dalla barca non avrebbero potuto far molto. Mentre mi guardavo intorno, incantato per la purezza di quel paesaggio, un paradiso terrestre dovunque si girasse lo sguardo, vidi che dietro la cascata c’era un’apertura nascosta proprio dal rivolo spumeggiante.
“Venite” dissi a mio padre e a zio Marcel “ho trovato qualcosa!”
Passai agevolmente dietro la cascata e raggiunsi la fenditura che avevo intravisto attraverso la cortina di acqua: era una spaccatura della collina. Attesi l’arrivo dei miei e mi introdussi con una certa circospezione nell’apertura, ancora illuminata dal sole, che creava dei giochi di luce stranissimi, attraversando l’acqua della cascata. Sembrava che le pareti fossero mobili.
Era proprio una grotta, non rappresentava il massimo del comfort, ma poteva costituire un riparo. Però dovevamo essere sicuri che al suo interno non vi fosse qualcosa di pericoloso. Cominciammo a farci strada. Il cunicolo di ingresso non era molto largo, ma in compenso era abbastanza alto da poter consentire un passaggio agevole. Dopo un paio di metri si apriva in una caverna molto alta e di forma circolare, al centro della quale si trovava un altro laghetto, omologo a quello esterno, ma molto più piccolo.
La caverna pareva asciutta, ce la girammo tutta quanta, non c’erano altri cunicoli. Avevamo trovato un rifugio fantastico per tutta la famiglia.
Effettuammo un altro largo giro di perlustrazione anche all’esterno, tutto intorno al laghetto, ma non trovammo segni di presenze estranee alla nostra, né di animali, né di persone. In quel momento, in realtà, non mi andava di fare alcun incontro, a meno che non fossero persone amiche, come Loanai. Loanai, ripetevo il suo nome nella mia mente: mi sembrava un ricordo così lontano. Eppure erano trascorsi solo due giorni da quando l’avevo lasciata e solo tre giorni da quando mi aveva fatto provare la sensazione inebriante di far l’amore con lei e con le sue amiche. Mi feci forza, non era il momento di lasciarsi andare alle malinconie. Ma un lampo mi attraversò la mente: il “riali”!; lo avevo lasciato sulla barca. Ricordavo bene di aver messo i sacchi donatimi da Loanai al sicuro in un armadio della mia cabina, ma in posizione elevata, quindi non avrebbero corso il pericolo di marcire nell’acqua marina e mi riproposi di andare a riprenderli l’indomani.
Assicuratici che non vi fossero pericoli intorno a noi, decidemmo di far ritorno alla radura presso la quale avevamo lasciato le nostre donne con nonno André. Il ritorno fu ancora più veloce, perché il percorso era già tracciato e noi non avevamo perso tempo in esplorazioni, come era accaduto all’andata. Dopo circa mezz’ora eravamo di nuovo riuniti. Le “nostre donne” ascoltavano con entusiasmo il racconto di papà che mi elogiava per aver scoperto la caverna–rifugio.
Poi narrammo della prodezza di zio Marcel, il quale era ancora vivo e si pavoneggiava dinanzi a tutti.
“L’habituel idiot! Il solito imbecille!” sbottò zia Juliette. “Non perdi occasione per fare la tua bella figura da stupido. E se fossi morto? Ci siamo salvati da un naufragio per vederti morire su questa plaga deserta.”
Zio Marcel non si scompose affatto. Si avvicinò a zia July, che aveva ancora i pugni stretti e le braccia lungo i fianchi, e tirò leggermente verso di sé l’elastico degli slip del suo bikini. Poi, mentre zia Juliette faceva un balzo indietro per sottrarsi da quella manovra a sorpresa, zio Marcel le disse: “L’unica cosa che avrei rimpianto è questo bel cespuglio biondo…”
“Merde!” replicò zia Julette, “vorrei solo sapere quando crescerai!”
Comunque l’exploit di zio Marcel servì a ridurre la tensione. Quando i risolini, più o meno evidenti, sui visi di tutti ebbero termine, mio padre ricompose la comitiva: “Ascoltatemi, ora prendiamo con noi tutto quello che abbiamo portato a terra dalla barca ed incamminiamoci verso la grotta. Non sarà l’Hotel Sheraton di Papeete, ma quanto meno ci offrirà un rifugio sicuro per la notte.”
Ripercorremmo, per la terza volta, la strada che conduceva alla grotta, in fila indiana. Ascoltavo le voci dei miei parenti che si scambiavano le proprie impressioni sull’isola, sulla vegetazione, sull’avventura che stavamo vivendo. L’intreccio dei loro discorsi, la loro voce per me era come la più bella delle musiche, una meravigliosa sinfonia di affetto.
Annette mi si avvicinò e, strofinandosi contro di me, mi disse: “Che bel culo abbiamo avuto a sopravvivere, vero René?”
“Certo!” replicai “Ma certamente non bello come il tuo!”
Annette fu colta di sorpresa dalla mia risposta, ma siccome era dotata di uno spirito non comune, immediatamente replicò: “Quando vorrai provarlo sarà sempre tardi…!” e accelerò il passo sculettando davanti a me.
“Ma guarda questa” dissi tra me. “Non si arrende mai. Mi ha trascinato a far l’amore nella furia della tempesta e persino in questa situazione tragica non perde occasione per pensare all’amore. E poi l’erotomane sarei io…!”
Tutto sommato questa uscita di Annette dimostrava che nonostante la tragedia il morale del gruppo era ancora alto. Sperai che non capitassero occasioni per farci ricredere.
Giungemmo in prossimità della grotta. Ponemmo i sacchi con le provviste e gli indumenti asciutti al riparo e stendemmo sui rami degli alberi quelli zuppi, dopo averli risciacquati nel laghetto di acqua dolce.
Il sole cominciava a calare. Edith e Annette si attivarono per preparare una cena fredda che risultò più adatta a dei croceristi che a dei naufraghi. Avevamo ancora degli accendini, ma non volevamo fare subito spreco di quelle risorse essenziali.
Il crepuscolo avanzava in fretta. Ai tropici il carro del sole veniva trainato da cavalli più veloci…
E, con altrettanta rapidità, ci accorgemmo di essere stremati. Accompagnammo i nonni nella grotta, sistemammo per loro dei giacigli molto approssimativi per farli riposare ed invitammo le ragazze (mamma, zie, sorelle, ecc.) a rimanere dentro, al riparo.
Noi, “gli uomini”, fuori, alla luce del crepuscolo, prendevamo gli ultimi accordi per stabilire dei turni di guardia. Accendemmo un falò per rischiarare l’area da sorvegliare e ci accoccolammo sull’erba. Chiesi a mio padre di riposare per il primo turno, mentre io e zio Marcel ci saremmo tenuti compagnia. Dopo le prime resistenze, mio padre si convinse che stancarsi tutti quanti non avrebbe giovato a nessuno, quindi si alzò ed entrò nella grotta.
Zio Marcel ed io iniziammo a chiacchierare, a voce bassa, per non disturbare il riposo dei nostri cari nella caverna.
“Sai René, in quegli attimi terribili nei quali ti ho visto scomparire nei flutti la mia vita ha avuto una trasformazione. Ti sembrerà strano che zio Marcel, il viveur inossidabile, si faccia intenerire da qualcosa, ma ti confesso che il vederti morire, perché ero sicuro che non ti avrei più rivisto, mi ha dato una stretta tanto forte al cuore che ne sono uscito sconvolto, appunto trasformato.
Come hai potuto constatare prima, qualche mese fa non mi sarebbe passata affatto per la mente l’idea di offrirmi volontario per assaggiare l’acqua. Io che sono stato sempre viziato e servito mi sono trovato a condividere la mia esistenza con le persone che ho più care al mondo ed ho finalmente realizzato che la loro sopravvivenza poteva dipendere dalla mia. Ecco perché prima non ho esitato.
Confesso che è stata una trasformazione tanto improvvisa quanto radicale, ma non mi dispiace affatto, sento ora, per la prima volta nella vita, che la mia esistenza ha un significato. Se non fosse stato per te, forse non lo avrei capito, o lo avrei compreso molto più in là nel tempo.
Ora penso che dovremo organizzare la nostra vita. Dovremo dividerci i compiti: esplorare l’isola, cercare di organizzare la nostra comunità, procurarci del cibo, difenderci eventualmente dai pericoli, lavorare, insomma, per la nostra sopravvivenza.”
Lo ascoltavo sbadigliando: gli avvenimenti recenti erano stati troppo sconvolgenti e la dose di adrenalina che ancora circolava dentro il mio organismo in conseguenza del terrore di morire e, non potei negarlo, dell’emozione di aver fatto l’amore con mamma, stava lentamente esaurendosi, lasciando posto ad un dolce languore.
Non mi accorsi che zio Marcel stava ancora parlando e caddi in un sonno improvviso come il tramonto tropicale. In effetti ebbi la consapevolezza che mi ero addormentato perché zio Marcel mi svegliò, scuotendomi dolcemente.
“René… René, su, bello svegliati!” mi sussurrava zio Marcel.
Mi scossi e solo allora ebbi la consapevolezza di aver dormito: avevo però la capacità di essere immediatamente lucido e mi tirai subito su.
“René, sono le tre di notte: hai dormito sei ore. Ti ho svegliato perché sto crollando anch’io e non volevo rischiare di addormentarmi e di lasciare il campo sguarnito. Non voglio svegliare tuo padre che ha avuto forse più emozioni di noi, quindi ho pensato che se tu fossi stato riposato avresti potuto fare il secondo turno di guardia. Il sole sorgerà tra non più di tre ore.”
“Hai fatto benissimo” risposi “sono completamente sveglio e posso farcela fino a domattina. Va’ pure a riposare, lo meriti. E scusami se mi sono addormentato.”
Zio Marcel scosse il capo, come se avesse voluto dire “non fa nulla”, mi arruffò i capelli e si diresse verso la grotta. Si fece largo attraverso la cortina di acqua della cascata e scomparve dietro di essa.
Mi appoggiai con la schiena ad una palma, volgendo le spalle all’entrata della grotta, per avere una visione piena dell’area, e sollevai gli occhi al cielo: che avventure! La Croce del Sud brillava nel cielo. Da bambino avevo sempre sognato di vedere con i miei occhi ciò che mi aveva colpito nei planetari che avevo visitato con la scuola. Il cielo australe era molto più interessante di quello che potevo scrutare con il mio telescopio che sistemavo sulla veranda della mia stanza a Parigi.
La notte era tranquilla, non si udiva alcun rumore, nemmeno quello della risacca, perché le onde erano frenate quasi del tutto dalla barriera corallina, quella che aveva distrutto la nostra barca, quella che mi aveva salvato la vita.
Ad un tratto un rumore improvviso mi fece sobbalzare: foglie calpestate, ma da chi? Non ebbi il tempo di rendermene conto che due mani mi oscurarono gli occhi. Scattai in piedi, imprecando: “Che cav…!” Avrei voluto dire: che cavolo sta succedendo?
Non ne ebbi il tempo: Annette si fiondò su di me e mi fece perdere l’equilibrio, nel momento in cui ero sbilanciato nel tentativo di rimettermi in piedi. “Allora, signorino, abbiamo perduto le buone abitudini? Non pensavo che sarebbe bastato un semplice naufragio per farti dimenticare delle tue amiche appassionate!” Annette cominciò a baciarmi, ed alternava le sue parole con famelici baci, mentre mi si strofinava addosso. “Noi non possiamo stare senza di te, lo sai.”
“Noi?” mi chiesi mentalmente. Poi, mentre mi divincolavo leggermente, ma senza alcuna convinzione, dalle braccia di Annette che sembravano tentacoli mentre mi accarezzava, scorsi la sagoma rotondetta di Edith. Certo! Le due amiche non potevano che essere complici in questa iniziativa. Ma benedette loro, mi dissi, che avevano questa energia e soprattutto perché avevano voglia di spenderla proprio con me…
“Dai, spogliati, facci vedere le tue ferite, che abbiamo noi la medicina adatta per curarle” mi diceva Annette con il respiro affannoso, mentre continuava a baciarmi.
Non avevo alcuna intenzione di resistere, anzi, le ore di sonno mi avevano completamente ristorato e prima del sorgere del sole avevamo tutto il tempo di “giocare” un po’ tra noi. Mi sollevai in piedi, detti un bacio ed una strizzata di tette alla cara Edith e cominciai a levarmi i vestiti. Prendemmo una coperta e ci allontanammo un po’ dalla radura, per non disturbare i nostri parenti addormentati. A pochi metri c’era una distesa di erba bassa: distesi la coperta per terra e mi avvicinai ad Annette. La baciai e lei ricambiò avidamente, esplorandomi con la sua lingua guizzante. La spogliai lentamente, poi mi avvicinai a Edith ad anche a lei riservai il medesimo trattamento: volevo vederle completamente nude entrambe. Il culetto di Annette si protendeva roseo e rotondo oltre la sua schiena, mentre l’imponente seno di Edith si appoggiava sul suo ventre: era tanto prosperoso da soccombere alla forza di gravità. Le areole ed i capezzoli prominenti erano così evidenti che non riuscivo a distogliere lo sguardo.
Mi avvicinai ed iniziai a baciare avidamente quella centrale del latte: come era capitato per mia madre, evidentemente avevo una singolare propensione per quegli attributi femminili: mi facevano arrapare tantissimo. Edith era come paralizzata, lunghi brividi le attraversavano il corpo, lei rispondeva ai miei baci con dei gemiti appena percettibili. Il ritegno che aveva mostrato durante i nostri primi approcci era svanito completamente. Però lei non era una di quelle che prendevano l’iniziativa: si faceva fare di tutto, godendo completamente, aveva un atteggiamento passivo ma accondiscendente che mi intrigava moltissimo.
Comprendevo che passare repentinamente da una condizione di riposo ad un rapporto sessuale, senza attraversare la fase dei preliminari, era un fenomeno inusuale, almeno per me, però dovevo considerare che gli avvenimenti recenti avevano completamente stravolto ogni forma di rispetto per le convenienze, anche in questo campo.
Mentre succhiavo i capezzoli di Edith, Annette si accoccolò ai suoi piedi e le fece divaricare le gambe, quindi si pose completamente sotto di lei ed iniziò a leccarle la fica. I tremiti di Edith, che non riusciva a spiccicare parola, accrebbero in misura esponenziale. Nel silenzio della notte si avvertiva distintamente lo sciacquio della lingua di Annette che si introduceva nella fica di Edith, ormai completamente rorida di umori.
Questa attività durò alcuni minuti, poi Annette si alzò, prese per mano Edith e, facendola inclinare in avanti, le fece appoggiare le mani al tronco di una palma. Dopo di che mi invitò ad avvicinarmi a lei ed a penetrarla in quella posizione: non mi feci pregare affatto, mi posi dietro Edith, piegai le ginocchia per adeguarmi alla sua statura, e avvicinai il mio pisello alla sua fica, che, alla luce pur fioca del falò ancora acceso nella radura, appariva lucida di umori. Non faticai affatto a trovare la calda strada d’amore e in un attimo il mio pisello scomparve, ingoiato da quella fornace di desiderio.
Edith sculettò leggermente, sia per l’eccitazione sia, evidentemente, perché voleva godersi il più possibile l’omaggio che le stavo porgendo. I suoi mugolii, prima appena soffusi, si sovrapponevano al respiro, sempre più ansante. Cominciai a muovermi dentro di lei, dapprima lentamente, per non trasformare una dolcissima penetrazione in disagio fisico per lei, poi, quando Edith dette evidenti ed ulteriori segni di gradimento, impressi al mio bacino un ritmo più veloce e possente.
Tenevo la testa piegata da un lato, per non perdermi uno spettacolo unico al mondo: l’enorme seno di Edith, sotto le mie spinte si agitava con un movimento a pendolo, che faceva dondolare le mammelle dal suo stomaco fin quasi al suo viso. Straordinario ed eccitantissimo. Sentivo il mio pisello che si contraeva sempre più alla vista di quel ben di dio ondeggiante sotto le mie spinte, che assumevano un ritmo sempre più frenetico.
“Ohhhh, Renè,” ripeteva ossessivamente Edith, che era costretta a reggersi saldamente al tronco della palma dove l’aveva piazzata Annette, altrimenti le mie spinte poderose l’avrebbero scagliata lontano. Intanto Annette si era riposizionata tra le gambe di Edith. Seduta per terra, passava alternativamente la sua lingua sul clitoride di Edith e sul mio pisello che entrava ed usciva dalla fica di quest’ultima. Quando interrompevo le spinte ed entravo a fondo nella fica di Edith, Annette ne approfittava per succhiare le mie palle e giocarci facendosele girare in bocca. Tutto questo mentre si tormentava il clitoride. In tre formavamo in groviglio di corpi, gambe che si intrecciavano, braccia che si aggrappavano per conservare l’equilibrio…
“Ah, René, mi fai godere!” cominciò a dire Edith. “Non resisto più, spingi, spingi, ancora, ohhh, più forte, ci sono, ohhhhhhh, vengo, vengooooo, ahhhhhhh!” Le contrazioni della fica di Edith si fecero spasmodiche. Lei dimenava il culo come se stesse danzando un rituale polinesiano; per non urlare il suo godimento tratteneva il respiro ed espirava sibilando. “Mon dieu, c’est merveilleux” continuava a ripetere Edith, con Annette che non smetteva di passare la lingua sulla sua fica.
Mentre la foia era ormai al parossismo, un rumore ci fece sobbalzare. Un brivido di gelo mi attraversò tutta la schiena. Non pensai ad animali feroci, ma immediatamente al fatto che, dopo tante avventure, alla fine eravamo stati scoperti. Sperai tanto che non fosse mia madre: quella mia prestazione, pensai, mi avrebbe fatto perdere innumerevoli punti nella scala del suo affetto.
“Vir, maledizione, ci hai gelati dalla paura” dissi con un filo di voce, quello che il groppo che avevo in gola mi permise di tirar fuori. Infatti era Virginie, la mia sorellina–complice, la più spregiudicata, quella che viveva fuori da ogni schema. Non erano passati molti giorni da quando, nella mia cabina, avevamo fatto l’amore. Ma com’era possibile, mi chiedevo, mentre le orecchie mi fischiavano per la pousse pressoria che l’emozione mi aveva appena provocato, che una famiglia normale, composta da persone più che normali, avesse componenti che facevano l’amore tra loro come se fosse la più normale delle condizioni?
Io con mia madre, con mia sorella, una situazione che nemmeno Miller avrebbe saputo descrivere!
“Ma bravi! Come ci divertiamo!” Sussurrò Virginie, anche lei con un filo di voce, consapevole che rumori strani avrebbero provocato il risveglio dell’intera comitiva. “E ci divertiamo senza dirlo a nessuno! Siete dei grandissimi egoisti. L’avevo capito subito, quando ho visto uscire dalla grotta queste due squinzie, che stavate preparando qualcosa di piccante! E volevate farlo senza di me! Egoisti!”
Detto questo dette una pacca sul sedere di Edith, o meglio su quella parte che restava libera da me, che vi ero letteralmente appiccicato contro. “Avanti tu, scostati, che hai già goduto abbastanza, fai divertire anche me, ora!” disse in tono perentorio a Edith, la quale, più confusa che mai, ancora nei fumi dell’orgasmo che l’aveva sconvolta, si riscosse, si scostò dall’albero al quale Annette l’aveva fatta appoggiare e si rialzò. Il maestoso seno, con i capezzoli rossi e prominenti per i ripetuti massaggi ricevuti dal sottoscritto, si riappoggiò sul suo ventre, mentre lei, scossa da un comprensibile capogiro, si appoggiò ad un albero vicino.
“E bravo il mio fratellino!” ora era arrivato il mio turno di rimproveri, “non perdiamo occasioni per divertirci! Anche qui, in quest’isola sperduta, dopo aver appena fatto naufragio, qui si scopa come ricci, eh?” Virginie sembrava davvero incazzata. “E senza dire nulla alla povera Vir, che è costretta qui, tutta sola, a far che? A guardare gli altri che scopano. Ma vi sembra una cosa fatta bene questa? Ora pensate a rimediare, a cominciare da te fratellino…”
Quindi Virginie si tolse il pareo, unico indumento indossato, e rimase completamente nuda. Era meravigliosa: il suo corpo statuario brillava alla luce del falò.
Vir ci mise un attimo a sostituire Edith nella stessa posizione che lei aveva assunto fino a pochi attimi prima, cioè inclinata ed appoggiata alla palma. “Datevi da fare, ragazzi, fate godere anche me, ne ho tanto bisogno…” Annette non aspettava che di udire quelle parole per ricominciare a far roteare la lingua. Virginie divaricò le gambe per consentire ad Annette di avere un migliore accesso al suo perineo e Annette, ovviamente, ne approfittò subito: iniziò un paziente lavoro di lingua, del quale, peraltro, lei era davvero maestra, dal clitoride di Virginie alle sue grandi labbra, che prendeva in bocca e succhiava avidamente, facendole allungare, poi entrava in vagina e dava alcuni secchi colpetti con la lingua tesa, come per penetrarla, poi ancora si spostava verso il buchino posteriore, che umettava girandoci intorno e penetrava irrigidendo ancora la lingua.
Ben presto iniziò la defaillance dei freni inibitori di Virginie, che cominciò a roteare il bacino: la danza polinesiana aveva contagiato più o meno tutti i familiari! Mentre Annette la leccava, io accarezzavo Virginie, sulla schiena, poi lungo le cosce, infine sul seno. Mi piaceva pizzicarle leggermente i capezzoli e Vir sembrava gradire molto.
Poi, con la consueta immediatezza, tipica della sua personalità, proprio come quella volta, nella mia cabina, quando aveva voluto far l’amore senza nemmeno svestirsi, protese un braccio all’indietro e si impadronì del mio pisello. “Com’è bello, René.” Poi, rivolgendosi ad Annette, le disse: “Dai, maestra di pompini, fammi vedere da vicino come ingoi tutto questo monumento!”
Sembrava che Annette non aspettasse altro: aprì la bocca e con le labbra cinse la mia punta, poi, con un movimento esasperatamente lento, come se stesse ingoiando una pietanza, spostava le labbra sempre un po’ più in basso, centimetro dopo centimetro, mentre Virginie ed Edith la guardavano con gli occhi spalancati. Sembrava che le sue labbra richiamassero ogni centimetro del mio pisello dentro la sua bocca, fino a quando di pisello non ne rimase fuori nemmeno un millimetro. La gola di Annette era gonfia per la presenza di quel corpo estraneo al suo interno, ma Annette non ne sembrava affatto disturbata, anzi, il suo sorriso testimoniava l’inequivocabile piacere che provava nel farlo.
“Ma come fai?” le chiedeva Virginie. “Senti, un giorno di questi devi assolutamente insegnarmelo, a me verrebbe da rimettere se facessi una cosa così; ma chi sei, una fachira?” Annette sorrideva e continuava a strofinare la punta del suo naso contro i peli del mio pube, mentre io sentivo la sua gola che stringeva la mia punta mentre lei deglutiva.
Annette cominciò poi il suo classico movimento dentro–fuori mentre mi succhiava il pisello con la forza di un aspirapolvere. Mentre ero dentro di lei avvertivo i movimenti della sua lingua che roteava intorno alla cappella: era semplicemente straordinaria!
Un sussurro di Vir ci fece ritornare tutti alla realtà: “Ora basta, fate divertire me!” Annette ubbidì immediatamente: prese in mano il mio pisello e lo diresse verso la fica di Virginie, poi ritornò sotto di lei e ricominciò a leccarla tutta, mentre Edith, appena ripresasi, iniziò a carezzare Vir su tutto il corpo.
La fica di Vir era abbondantemente lubrificata, grazie al lavoro di Annette, ed il mio pisello vi scivolò dentro come se la via fosse stata già tracciata. Era Vir che conduceva il gioco, muovendosi lentamente avanti e dietro. Faceva leva con le braccia appoggiate all’albero per spingersi con più forza all’indietro, per impalarsi più profondamente sul mio cazzo. Io, da parte mia, aspettavo che lei indietreggiasse per spingere con forza opposta alla sua ed incontrare il suo bacino, contro il quale spingevo morbidamente, ma decisamente, il mio, in una danza erotica che mi faceva andar fuori di testa.
Ma anche Vir non era più tanto lucida: la sua crescente eccitazione era testimoniata, oltre che dai contorcimenti del suo bacino, anche dal suo respiro, così affannoso da creare un sibilo che si diffondeva nella notte. Sperai che nessuno fosse sveglio ad ascoltare i nostri inequivocabili rumori, anche se la radura dove ci eravamo rifugiati era abbastanza distante dalla caverna.
Il nostro gruppo, poi, era davvero affiatato: sembrava che avessimo studiato un copione di film porno prima di far l’amore. Annette continuava a leccare il clitoride di Virginie, così come aveva fatto prima con Edith e quest’ultima partecipava come poteva. Ad un tratto avvertii qualcosa di caldo e morbido vicino alla mia spalla. Era Edith, che aveva appoggiato il suo seno sulla mia schiena. Mhhh, che sensazione di morbidezza… Ma non mi bastava. Feci cenno a Edith di passare davanti, poi le chiesi di avvicinare il suo seno alla mia bocca. Lei comprese immediatamente: afferrò con due mani la sua tetta sinistra e la sollevò verso la mia bocca. Il capezzolo era ancora turgido ed io lo presi in bocca, nello stesso modo in cui, poche ore prima, avevo giocato con il seno di mia madre.
Edith emetteva dei mugolii sommessi, a voce bassa: “Su, bimbo, succhiami il latte” diceva sottovoce, “più forte, fallo uscire tutto, svuotami le mammelle… mmmmhhhh, quanto mi piace!” In effetti sembrava che dal capezzolo di Edith venisse fuori del liquido, forse era soltanto la mia saliva, ma io ero talmente eccitato che non sarei stato in grado di distinguere se fosse stato latte o altro.
Continuavo a spingere disperatamente il mio bacino contro quello di mia sorella, che, esattamente come Edith, pochi minuti prima, aveva ormai perso il lume della ragione: Annette, infatti, non le dava tregua con i guizzi della sua lingua impazzita. Ora avevamo cambiato ritmo: io sfilavo completamente il pisello dalla fica di Virginie e lo infilavo nella bocca di Annette (anche lei aveva diritto alla sua parte e, sapendo quanto le piacesse…), poi lo reintroducevo nella fica di Vir e spingevo a fondo. La mia resistenza stava sorprendendo anche me: e tutto questo senza nemmeno far ricorso al riali. Era la seconda volta che pensavo al riali, un bene prezioso del quale avrei dovuto avere grande cura…
Ben presto le stimolazioni della lingua di Annette, il calore della fica di Virginie e l’allattamento offertomi da Edith cominciarono a produrre l’effetto più naturale del mondo: uno sconvolgente orgasmo. Mentre iniziai a sentire il consueto rimescolamento del basso ventre, le gambe cominciarono a tremare. “Ragazze, sono vicino” mi premurai di avvertire.
Annette, la regista del gruppo, non perse l’occasione per proporre una variante e disse a Edith e a mia sorella: “Su, venite qui, vi faccio assaggiare qualcosa di meraviglioso”. Virginie si sfilò il mio pisello dalla fica, movimento che mi consentì ancora qualche altro attimo di autonomia. Poi tutte e tre le ragazze si accoccolarono davanti a me ed io, finalmente, venni. Il primo schizzo prese in pieno il viso di Annette, che emise un gridolino di gioia. Virginie, che evidentemente non voleva essere da meno, prese in mano il pisello e lo diresse verso la sua bocca spalancata, facendosela riempire da altri due schizzi in sequenza ravvicinata, poi passò il “testimone” a Edith, che si godette lo schizzo successivo. Infine Annette, evidentemente poco soddisfatta, si impadronì del pisello, richiuse la sua bocca su di esso e la riaprì soltanto dopo aver prosciugato tutta la “sbora” che ancora sgorgava dal pisello.
“Mmmmhhhhh, hai sentito quanto è buona la sbora di Rene?” chiese a Virginie, che stava ingoiando l’ultimo sorso. Mentre Vir annuiva, tutti guardammo Edith, che stava facendosi scivolare in bocca le ultime gocce ancora rimaste sul suo viso. Anche lei era consapevole di quanto fosse buona!…
Fine Capitolo 12
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Vi invitiamo comunque a segnalarci i racconti che pensate non debbano essere pubblicati, sarà nostra premura riesaminare questo racconto.
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